Moda e Arte




Il Presidente della Repubblica (italiana) Giorgio Napolitano ha detto che bisogna abolire “la distanza fra la politica, (cioè lo stato, secondo lui), e la cultura.”
Per “cultura” lui intende anche lo spettacolo, il cinema naturalmente, e tutto quello che adesso viene accorpato sotto quella classificazione dai quotidiani.
Per cui, quando ho letto nell’interessante articolo di Virgina Postrel , la cui traduzione vi propongo oggi, che il Lincoln Center di New York ha incluso la moda fra le sue offerte culturali mi sono un po’ preoccupato.
Sí, perché la moda è arte, e su quello non ho dubbi, (ed è anche perciò un veicolo di espressione individuale. Guarda caso i collettivisti, tipo Mao Tse-Tung con i suoi bei vestitini tutti uguali, non la vedono di buon occhio); però il rischio, se la moda prende il posto che le spetta fra le attività creative umane, è che finisca, almeno in Europa, nel novero delle cose che qualche Ministero si sente in dovere di proteggere e sovvenzionare.






Quando un’arte diventa “seria”, per così dire, è la fine.
Il cinema, per esempio: la maggior parte dei film è inguardabile; si fanno per un pubblico giovanile; e comunque i film più di successo sono i film commerciali americani, realizzati con fondi privati, e non certo i film europei sovvenzionati dallo stato. (A proposito, Napolitano ha fatto la sua dichiarazione davanti a un gruppo di cinematografari italiani, che si aspettano un obolo dal ministero perché non sono capaci di fare un film che il pubblico internazionale voglia guardare).
I film cosiddetti un po' più seri non li guarda nessuno, (finiscono molto presto nel circuito a noleggio) e le storie e le sceneggiature più interessanti oggi si possono vedere grazie al più commerciale dei mezzi di comunicazione: la TV (americana).
Il jazz, che era la musica dei postriboli, adesso è una nicchia per un pubblico di mezza età, sedicente sofisticato, e non ha proposto niente di nuovo forse dagli anni 1950.
I fumetti, prima stampati su cartaccia e venduti a pochi centesimi, adesso si chiamano “graphic novels” (in Europa) e infatti li leggono in ben pochi. (Quelli americani, però, stanno vivendo di nuovo un periodo fortunato e, anzi, forniscono il materiale all’industria cinematografica).
L’opera, che era la musica pop di un tempo, ormai si ripete sempre uguale da secoli. I cantanti lirici, (praticamente impiegati statali, in Italia) nei loro costumi sembrano dei manichini. Si potrebbero mettere in scena delle figure di cartapesta, con un bel trucco pesante, e trasmettere una registrazione dell’opera in sottofondo; tanto quello che conta secondo loro è il “bel canto”.
Ma la moda è ancora un campo in cui si inventa, come ci ricorda Postrel. Lasciamola nell'ambito del libero mercato e speriamo che non diventi competenza di nessun ministero.








Virginia Postrel è una scrittrice e giornalista libertaria americana. È nota negli Stati Uniti per i suoi due libri: "The substance of Style" e " The Future and Its Enemies." È membra inoltre del Consiglio di Amministrazione della Foundation for Individual Rights in Education , un organizzazione libertaria la quale cerca di contrastare la marea del "politicamente corretto" che ha inondato le università americane.       


Questa è la url dell’articolo originale del Wall Street Journal:
Buona lettura. I vostri commenti saranno molto graditi.
Leonardo Pavese         



Moda e Arte

di Virginia Postrel (traduzione e adattamento di Leonardo Pavese).


Nel marzo del 2009, pochi giorni prima che aprisse una grande mostra di ritrattistica di Andy Warhol, al Grand Palais di Parigi, Pierre Bergé, partner di Yves Saint Laurent  e custode della sue memoria, si oppose all’accostamento dei ritratti del defunto designer con quelli di personaggi quali Giorgio Armani e Sonia Rykiel, sotto la classificazione di “Glamour”: Saint Laurent era un artista, disse Bergé. La sua immagine dovrebbe essere esposta insieme a quelle di David Hockney e Man Ray. Dopotutto, aggiunse, lo stesso Andy Warhol aveva proclamato Yves Saint Laurent: “le plus grand artiste français de notre temps.”


Yves Saint Laurent  di Warhol
La mostra si tenne, fra l'entusiasmo della critica, ma senza le immagini di Yves Saint Laurent. Fu un momento tutto francese e stracolmo d’ironia, e tutto improntato alla preservazione di quella differenza di rango che lo stesso Warhol aveva fatto deflagrare. Dopotutto, era stato lui ad aver notoriamente paragonato i grandi magazzini a musei:

“Ma perché mai la gente pensa che gli artisti siano tanto speciali? È un lavoro come un altro.”

Per assurda che fosse, la protesta di Bergé aveva evidenziato un convincimento molto diffuso: cioè che la moda sia un’attività inferiore, indegna, triviale e culturalmente sospetta. L’arte è meglio; ma molto meglio.

Nei circoli museali, osserva Valerie Steele, direttrice del museo al Fashion Institute of Technology, “la moda, in realtà, è considerata come la figlia bastarda del capitalismo e della vanità femminile.”

Perciò, il 9 settembre, (del 2010), quando al Lincoln Center, (a New York), si è aperta la Mercedes Benz Fashion Week, (la Settimana della Moda, patrocinata dalla Mercedes Benz), l’evento ha segnato un momento culturale molto importante. Infatti il Lincoln Center, (un complesso teatrale), farà molto di più che rendere semplicemente disponibile un posto per le sfilate in passerella, (dopotutto, si possono affittare i locali per feste di compleanno e conferenze); ma ha ingaggiato un direttore responsabile per la moda e includerà le sfilate, in aggiunta all’opera, al teatro, alla danza e alla musica, alla sua annuale carrellata artistica, con programmazione di film, mostre fotografiche e conferenze.


È un segnale importante di una tendenza intellettuale, che si è andata formando durante gli ultimi decenni. La moda sta lasciandosi alle spalle i pregiudizi culturali e, in misura sempre maggiore, è riconosciuta come un’attività culturale importante: in effetti, uno dei caratteri che definiscono al nostra civiltà.

“La moda testimonia la capacità di adattamento degli esseri umani,” scrive il filosofo francese Gilles Lipovetsky, nel suo iconoclastico libro del 1987: “The Empire of Fashion: Dressing Modern Democracy”, (L’impero della moda: Vestire la democrazia moderna). Al pari della scienza e dell’industria, “la moda è uno dei volti dell’ingegnosità moderna; cioè della continua lotta degli esseri umani per padroneggiare le condizioni della loro esistenza.”

La moda consente agli individui di crearsi una loro immagine pubblica e di godersi il piacere di inventarsela. Andando controcorrente rispetto ai costumi e al “classicismo”, la moda ci ricorda quanto sia universalmente umano il gusto della novità, soddisfatto e intensificato dalla cultura commerciale moderna. 
Benché le fluttuazioni periodiche nell’abbigliamento occidentale si possano far risalire al Medioevo, le variazioni della moda divennero più frequenti,  e meno prevedibili, man mano che le società si affrancavano dall’ereditarietà del rango sociale e dalle autorità consuetudinarie, e acquisivano la fluidità propria dei mercati, l’eguaglianza sociale e un governo repubblicano. Il recente ritorno alle spalle larghe degli abiti da donna, perciò, non è un omaggio non tanto agli anni 1980, o 1940, quanto al dinamismo di una società aperta.

Nel suo significato più profondo e ampio, con il termine moda qui non si specifica nessuna forma espressiva in particolare, ma si fa invece riferimento a un qualsiasi mutamento nell’estetica di per sé stesso. La pittura e la scultura riflettono i mutamenti nella moda; e anche la musica, la danza, la poesia e la prosa.

Moda vuol dire semplicemente che “un qualcosa è ora più attraente di ciò che prima fosse considerato attraente”, scrive il sociologo (di Harvard) Stanley Lieberson, nel suo libro del 2000: “A Matter of Taste. How Names, Fashion and Culture Change.” (Questione di gusti. Come cambiano i nomi, la moda e la cultura.)


Alida Valli

Gli abiti color cammello ci paiono perfetti quest’autunno (Postrel scrive nel 2010 ndt); mentre invece due anni fa il viola era il colore del momento. Questa volubilità rende la moda sospetta. Per cercare di darle un che di razionale, da due secoli gli intellettuali concordano, benché con piccole differenze, sullo fatto che la moda abbia principalmente uno scopo: segnalare e consolidare il proprio stato sociale. La moda è stata così equiparata al consumo eccessivo, e rappresentava invidia, snobbismo e spreco. Gli ordini sociali più bassi copiavano quelli superiori, e la moda mutava man mano che l’alta società tentava di distanziarsi dai suoi imitatori.

Forse la musica  e la pittura potevano anche evolvere alla ricerca della verità; ma l’ondivagare degli stili delle gonne e dei sofà era visto solo come un modo per attrarre i creduloni o rimettere il volgo al suo posto.
I moti giovanili dei primi anni del 1960 demolirono questa semplicistica teoria della “diffusione dall’alto”; quando le mode popolari di Carnaby Street detronizzarono la haute couture parigina. Le ragazze Mod, in minigonna, non cercavano certo di emulare le donne aristocratiche. L’influsso fluiva in senso opposto; e in realtà la stessa cosa si era verificata negli anni 1920 con Coco Chanel, la quale era diventata una couturier non fornendo ai clienti facoltosi quello che già portavano, ma commercializzando lo stile semplice che piaceva a lei. L’attrattività della moda è molto più complessa della semplice invidia di classe.





Prendete, per esempio, la moda dei nomi dei bambini. Negli anni 1960, Susan e (scritto in modi diversi) Cathy erano due dei nomi più popolari per le femmine, (negli Stati Uniti). Oggi Susan non è neanche fra i primi 500; e le bambine di nome Katherine vengono chiamate Kate, Kit, Katie (or Katherine), ma tutto fuorché Cathy, il quale appartiene solo a signore di una certa età. Certi nomi suonano al passo coi tempi, mentre altri sembrano scaduti, oppure, come vestiti di altri tempi, ci paiono piacevolmente all’antica e chissà, forse, da rivisitare.
Le fluttuazioni della moda si ampliano, ci fa notare il Professor Lieberson, quando i genitori si sentono più liberi di scegliere i nomi dei bambini, piuttosto che in dovere di onorare un santo o un parente.
Piuttosto che semplice imitazione sociale, le mode di ogni sorta sembrano essere guidate dalla voglia di essere diversi, ma non troppo: spiccare come individui, mentre allo stesso tempo si rimane a far parte del gruppo particolare con il quale ci si identifica. (Per esempio Kayla, un nome popolare fra i bianchi dal reddito più basso, non è arrivato ad essere fra i primi 20 nomi, nei gruppi socio-economici elevati.  Le sub-culture dei “Goth” (in Italia chiamati Dark) e  dei “Rocker” hanno i loro  propri cicli di moda e sottogruppi stilistici.
Nel vestire, le fluttuazioni non sono casuali; e nemmeno rispecchiano, in modo palese, gli eventi attualità. Gli stili dei vestiti, così come gli stili della musica, evolvono secondo una loro logica interna: gli orli reagiscono agli orli dell’anno scorso e non alle quotazioni del mercato azionario; e ogni dato stile può accordarsi a diverse, e spesso contraddittorie narrative.
La crisi economica suggerisce colori più scuri, per rispecchiare l’umore del pubblico, o tinte sgargianti per rallegrare la gente? La risposta sta semplicemente in ciò che brama l’occhio.
Portare la moda la Lincoln Center non solo riconosce l’importanza culturale dello strumento di comunicazione visiva, ma ridefinisce la moda nel senso di arte scenica: un ambito certamente più appropriato di una mostra statica in un museo.
La rappresentazione diventa funzione dei corpi che la rappresentano.
La differenza fra una gonna civettuola e un vestito aderente, o fra la drammaticità di una mantello e la misteriosità di un trench derivano da come cascano e si muovono i capi.
Ecco perché la camminata della modella è importante quanto le sue sembianze.
Ma questo non vuol dire che le modelle (né i modelli) detengano il monopolio delle sfilate di moda. Nel libro del 1978  “Seeing Through Clothes”, (Vedere attraverso gli abiti), il suo importantissimo studio, che metteva in relazione la moda con la storia dell’arte, Anna Hollander sostiene che il vestiario costituisca la materia prima per la più universale delle arti sceniche.
Scrive: “Una semplice sfilata di gente comune, ma vestita in modo speciale, è uno dei più antichi spettacoli del mondo. Probabilmente, continua a esistere perché non manca mai di dare soddisfazione a quelli che osservano e a coloro che sfilano.”
             
   
      
   

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