Il massacro continua




La seguente è la seconda parte del racconto dei fatti del tragico 16 giugno 1955 a Buenos Aires; quando elementi delle forze armate tentarono di eliminare il capo di stato argentino, mediante un bombardamento della Casa Rosada, cioè la sede del ramo esecutivo del governo. (La prima parte della cronistoria è qui,e forse sarebbe meglio che leggeste le varie parti in ordine).

Ci sono alcune considerazioni da fare: mi pare molto strano che gli ufficiali dell'Aviazione Navale Argentina che pianificarono l'attacco non si rendessero conto delle limitate capacità dei loro relativamente modesti bombardieri: riuscire a colpire con precisione il presidente, senza neanche sapere esattamente dove fosse, era praticamente impossibile. Quindi, l'attacco sembra essere, almeno secondo me, un "regolamento di conti" fra le diverse forze armate ( e qui bisognerebbe approfondire la storia argentina, per capire la rivalità, per esempio, fra la Armada e l'Esercito). E questo odio accecante spiegherebbe, secondo me, la sconsideratezza con la quale agirono i militari ribelli, senza nessun riguardo per i civili che si trovavano, al momento dell'attacco, nella principale piazza del paese; e senza aver messo in conto l'appoggio sul quale poteva ancora contare Juan Domingo Perón fra il popolo.

Ma, probabilmente, con le loro bombe dal potenziale limitato, intendevano cinicamente innescare un conflitto civile, obbligando gli argentini a schierarsi in un campo o nell'altro.

Vi lascio trarre le vostre conclusioni, dopo aver letto la seconda parte della traduzione.

Questa cronistoria è stata tratta dai blog di Alberto N. Manfredi (h)

L'illustrazione di testa è di Suehiro Maruo

Ogni vostro commento sarà, come sempre, molto gradito.

Grazie,

L. Pavese


Buenos Aires bombardata.

(Seconda Parte)

Mentre a terra si svolgevano questi combattimenti, stava volando verso il centro della città la squadriglia di allarme della VII Brigada Aérea di Morón, composta da quattro veloci caccia Gloster Meteor F Mk. IV, spinti da potenti turbogetti Rolls-Royce e armati ciascuno con quattro cannoni Hispano Suiza da mm 20.

Conduceva la formazione il suo comandante, tenente Juan García, ai comandi dell’aereo immatricolato I-039, seguito dal primer teniente Mario Luis Olezza sullo I-077, dal teniente Osvaldo Rosito sulla matricola I-090 e dal teniente Ernesto Adradas sul caccia immatricolato I-063, il quale era partito qualche minuto più tardi, perché il suo motore destro aveva avuto problemi di messa in moto.

La loro missione: abbattere ogni aereo ribelle che avessero avvistato.


I Meteor della VII Aerobrigata


I Meteor raggiunsero la zona di operazioni e informarono la loro base che, sulla Casa de Gobierno, non si osservava niente di anormale. Tuttavia, confermarono che sarebbero rimasti ad orbitare sul punto, in attesa del nemico e che avrebbero riportato ogni novità.

Non erano trascorsi che pochi minuti, quando il tenente García avvistò una coppia di aerei dell’aviazione navale che si allontanavano in direzione nord, cosa che si affrettò a riportare al controllore di Morón.

“Proceda al loro abbattimento”, fu l’ordine che ricevette.

García trasmise la direttiva ai suoi piloti, e la sua squadriglia si scaglionò verso sinistra, lanciandosi all’inseguimento degli aerei fuggiaschi, pilotati dal teniente Máximo Rivero Kelly e dal guardiamarina Arnaldo Román.

Gli aviatori navali si erano staccati dal gruppo principale a causa della nebbia, e venivano dall’aver sorvolato la base del Regimiento Motorizado “Buenos Aires” senza averlo attaccato, perché l’unità era già partita verso la zona d’operazioni. Román aveva scortato un Beechcraft e, come il suo gregario, si trovava a corto di benzina ma portava ancora le bombe. Di conseguenza, al momento di essere intercettati, i due aerei si stavano apprestando ad atterrare allo Aeroparque.

I piloti ribelli stavano sorvolando la punta del Club de Pescadores, quando i Meteor dell’Aeronautica li intercettarono e aprirono il fuoco. Le scariche passarono a pochi centimetri dall’aereo di Rivero Kelly, il quale riuscì a salire fino a m 700 e, all’altezza di San Isidro, si nascose nelle nubi.

Román, ai comandi dello AT-6 matrícola 3-A-23, era prossimo all’atterraggio quando vide i traccianti passare sotto il aereo. Tentò una manovra evasiva virando in ascesa verso destra, ma trovò il caccia Meteor I-603 del teniente Ernesto Adradas, che aprì il fuoco e lo colse in pieno.




La cabina di Román scoppiò in pezzi ferendo il pilota alla testa, il suo serbatoio fu perforato e l’ala destra s’incendiò. Constatando che l’aereo non rispondeva più ai comandi, il pilota aeronavale si apprestò a lanciarsi col paracadute. A m 500 di quota, aprì il tettuccio, slacciò le cinture, si mise in piedi e saltò nel vuoto.

Cadde lentamente sopra le scure acque del Plata, con il giubbotto di salvataggio gonfio, sotto gli occhi di varie persone che osservavano dalla Avenida Costanera. Era appena stato uno dei protagonisti del primo abbattimento di un aereo argentino in combattimento, e aveva preso parte al vero battesimo del fuoco della Fuerza Aérea e della Aviación Naval.

Mentre cercava di mantenersi a galla nell’estuario, Román scorse una boa che si dondolava lentamente, e cominciò a nuotare verso di essa; ma, cinque minuti dopo, si rese conto che una lancia della Prefectura Naval stava puntando verso di lui.

La barca si arrestò vicino a lui, con alcuni uomini a bordo che gli puntavano le armi, pronti a crivellarlo di colpi nel caso avesse fatto un movimento falso. Quelli lo trassero dall’acqua e lo portarono prigioniero alla Subprefectura del Río de la Plata, sopra la Dársena Norte, dove rimase detenuto e in isolamento.


A sinistra: il Primer Teniente Olezza, pilota del Meteor I-077.
A destra: il Teniente Adradas ai comandi dello I-063. Furono i protagonisti del 
primo abbattimento aereo della storia argentina.



Nel frattempo, la squadriglia lealista fece un altro passaggio sulla zona di operazioni poi, non avendo avvistato altri aerei ribelli, considerò conclusa la missione e fece prua per Morón in formazione romboidale. I Meteor toccarono la pista alle 13:30, quasi allo stesso momento in cui il ribelle teniente de corbeta Máximo Rivero Kelly sorvolava la zona in direzione di Ezeiza.

Poco dopo che i piloti lealisti avevano messo piede a terra e avevano informato i loro superiori dei dettagli della missione, la Vll Brigada Aérea ricevette l’ordine di attaccare lo Aeropuerto Internacional. Impartito l’ordine, il vicecomodoro Carlos Alberto Síster, comandante del Primer Escuadrón e leale pilota peronista, si offrì di condurre la missione.

Il vicecomodoro procedette a indossare la sua tuta di volo da combattimento, e quando fu pronto, salì a bordo del suo aereo, matricola l-352, dalla cabina del quale chiese istruzioni al controllo missione. Che arrivarono quasi all’istante, chiare e concise:

“Si diriga a Ezeiza e mitragli i velivoli al suolo. Passi alla massima velocità possibile, perché vi sono pezzi d’artiglieria contraerea nel settore.”

Il vicecomodoro decollò da solo perché, nel momento di partire, il suo gregario riportò un malfunzionamento in una delle turbine che lo costrinse al suolo.


Il Vice-Comodoro Síster decolla alla volta di Ezeiza.



Nell’attimo in cui Síster stava dando la potenza di decollo, passò sopra la base dell’aerobrigata dell’aeronautica l’aereo della marina ribelle del teniente Rivero Kelly, diretto allo Aeropuerto Internacional. Senza volerlo, Kelly aveva generato altra confusione, giacché i ribelli dell’aeronautica argentina avevano convenuto con i ribelli della marina che il passaggio di un aereo navale sulla base dell’aviazione era il segnale che la sollevazione era in corso e che dovevano procedere ad impossessarsi della base aerea. Kelly aveva fatto credere agli aviatori ribelli che la rivolta stesse procedendo secondo i piani. E gli aviatori procedettero nel loro tentativo di impossessarsi di Morón.

Il ribelle De la Vega poteva contare solo sull’appoggio del suo aiutante,  Eduardo Wilkinson; ma quando annunciò che la base era stata conquistata, sette dei suoi ufficiali, con note tendenze antiperoniste, si schierarono subito dalla sua parte, così come il dentista della guarnigione, armato di una pistola.

Brandendo fucili mitragliatori, De La Vega e i suoi presero prigionieri diciotto sottufficiali dalla squadra aerea, rinchiudendoli in un hangar vicino all'edificio del distaccamento. Subito dopo, riunirono un totale di 180 soldati di leva e, alla loro testa, si diressero verso l'edificio principale, dove arrivarono nel momento in cui Síster stava prendendo il volo. Il resto dei piloti era sui loro aerei, pronti ad entrare in azione qualora si fossero presentati gli insorti.

Il brigadier Mario Emilio Daneri, il commodoro Soto, comandante della brigata aerea, e il capo del Gruppo 3 de Caza, (3⁰ Gruppo Caccia) il vice commodoro Orlando Pérez Laborda, furono fatti prigionieri. Soto cercò di affrontare i ribelli ma De La Vega gli puntò contro la pistola, ordinandogli di restare fermo. Subito dopo, ordinò loro di abbassare le armi, alzare le mani e dirigersi verso la stanza dei piloti, dove vennero rinchiusi.

I capitani Carlos Enrique Carús e Orlando Arrechea procedettero all'arresto dei piloti che erano in attesa di ordini sui loro aerei, conducendoli, sotto la minaccia delle armi, nella stessa stanza in cui erano stati trattenuti i loro superiori.

I ribelli erano padroni della situazione, con la VII Brigata in loro potere.

Mentre a Morón avveniva tutto ciò, il Vice-Commodoro Síster volava a Ezeiza, la cosiddetta “Base Rossa” dei ribelli, determinato a portare a termine la sua missione. Con gli edifici della stazione aerea che si profilavano all'orizzonte, il determinato pilota peronista iniziò a scendere, mentre controllava i suoi tabulati e regolava il dispositivo di attacco, mirando alle unità che si trovavano sulla pista principale.


L'aeroporto Pistarini di Ezeiza, in quegli anni


Bassi, Noriega e Sánchez Sabarots, appena atterrati, lo videro discendere dalle nuvole e dirigersi direttamente verso di loro, mentre apriva il fuoco con i suoi quattro cannoni da mm 20. Il personale della base si disperse rapidamente, correndo ai ripari; mentre i proiettili dei cannoni facevano sussultare l'asfalto e le schegge saettavano in diverse direzioni. I tre uomini corsero verso un fosso vicino per gettarvisi dentro, nel momento in cui Síster raggiungeva lo AT-6 di Rivero Kelly.

Sister risalì dalla picchiata e, guardando in basso, identificò molti degli aerei che avevano partecipato all'attacco al Palazzo del Governo, cioè: almeno dodici North American e uno dei bimotori Beechcraft, parcheggiati vicino a due trasporti e a un Catalina.

L'aviatore si diresse nuovamente verso di loro, sparando con decisione contro i monomotori, senza però colpirli. Tuttavia, crivellò la struttura del bimotore Beechcraft, immatricolato 3B-11, mettendolo fuori combattimento.

Durante l'attacco, l’aviatore lealista colpì anche un aereo passeggeri della compagnia aerea commerciale scandinava SAS e un altro di Aerolíneas Argentinas che si trovavano nelle vicinanze, generando il comprensibile panico tra i passeggeri e gli equipaggi. L'aereo della SAS, che sarebbe dovuto rientrare in Svezia quella stessa mattina, ricevette sei impatti sulla fusoliera, e l'aereo della Aerolíneas Argentinas due o tre.

A bordo del Catalina, il guardiamarina Osvaldo Pedroni rispose al fuoco, sparando con una delle mitragliatrici di poppa; e dal fosso dove si era rifugiato, il capitano Sánchez Sabarots, mosso più dall'istinto che dalla ragione, rimase in piedi con la pistola in pugno e svuotò il suo caricatore, inutilmente.

Durante il suo terzo passaggio, le armi di Síster s’incepparono, motivo per cui egli tornò alla sua base, atterrandovi sano e salvo quindici minuti dopo. La sua sorpresa fu grande quando, dalla sua cabina, vide il capitano Carlos E. Carús avvicinarsi a lui puntandogli contro la pistola. Fu costretto a scendere, mettersi le mani sulla testa e dirigersi verso la stanza dei piloti, dove fu rinchiuso insieme al resto dei prigionieri.

Durante tutto questo, al Ministero della Guerra, il generale Perón, visibilmente nervoso, aveva delegato completamente il comando al generale Lucero ed era rimasto in disparte, in attesa degli eventi.

Lucero aveva deciso di difendere il Ministero e la vita del presidente piazzando mitragliatrici pesanti alle finestre del palazzo e rafforzando la sua difesa con quadri e reparti del Reggimento Motorizzato "Buenos Aires". Da quelle postazioni ordinò di aprire il fuoco contro le truppe di Fanteria di Marina che avevano preso posizione davanti al Palazzo del Governo, battendo il settore nel quale erano schierate.

Allo stesso tempo, Lucero ordinò ad alcune unità militari di esplorare punti considerati sospetti, come la base aerea di El Palomar e la Escuela de Mecánica de la Armada (Scuola di Meccanica della Marina Militare), inviando a quest'ultima il generale José Domingo Molina, comandante in capo dell'esercito; il quale aveva installato il suo comando negli edifici della I Divisione Motorizzata, nella caserma di Palermo, da cui dipendevano il 1°, 2° e 3° Reggimento Fanteria, al comando del Generale Ernesto Fatigati.

Colui che avanzava spedito verso la battaglia, senza sapere cosa stesse realmente accadendo, era il capitán Marcelo Amavet, comandante del 3° Squadrone del Reggimento Scorta Presidenziale il quale, in testa alla sua colonna, aveva lasciato Palermo prima dell’inizio del bombardamento, ignaro della gravità della situazione.

Amavet imboccò la solita strada del tempo di pace, cioè la Av. Libertador (già Alvear) e poi Leandro N. Alem, per dirigersi direttamente verso il palazzo del governo con i suoi automezzi: un autobus e due camion, carichi di soldati di leva.

Dall'altra parte, la sezione ribelle del 4° Batallón de Infantería de Marina, al comando del Teniente Menotti Alejandro Spinelli, continuava a combattere, mantenendo le proprie posizioni, tra la stazione di servizio dell'Automóvil Club Argentino e Plaza Colón, mentre veniva duramente tartassata dai granatieri della Casa de Gobierno e dalle forze appostate nell'Edificio Libertador.

Spinelli, il quale sparava dal piazzale assieme al guardiamarina Antonio Pozzi, ordinò ai suoi più vicini di sparare alle gomme delle poche auto che cercavano disperatamente di ritirarsi dall'area, allo scopo di ottenere una migliore copertura.

Non sapendo che il capitano Argerich si era già ritirato, aveva deciso di inviare il caporale Juan Carlos López a chiedere istruzioni, quasi nel momento preciso in cui una donna attraversava di corsa il luogo, piangendo e urlando di terrore, il volto coperto di sangue.

Il tempo scorreva disperatamente lento e poiché il caporale López non ritornava, Spinelli ordinò ai suoi uomini di arretrare per mettersi al riparo dalle mitragliatrici che sparavano incessantemente dalla Casa Rosada. Chiamò il coscritto Menafra e gli ordinò di partire in cerca delle istruzioni che López non aveva riportato.

Menafra iniziò a correre per eseguire i suoi ordini, ma dopo pochi metri cadde colpito e gravemente ferito.

Mentre i proiettili risuonavano intorno al coscritto ferito, che si rotolava sul marciapiede, giunse nel settore il Regimiento Escolta (Reggimento di Scorta), il quale pose i propri mezzi sulla linea di tiro dei Marines ribelli. Vedendo che la colonna si sarebbe fermata sotto la spianata laterale di Rivadavia e Paseo Colón, Spinelli capì che quei rinforzi costituivano una condanna a morte per il suo plotone e per questo ordinò di aprire il fuoco contro le truppe lealiste.

Una pioggia di piombo si abbatté sulla colonna motorizzata, uccidendo diversi uomini.

Un proiettile colpì alla testa il coscritto Rafael Inchausti, autista, uccidendolo sul colpo. Con il soldato morto al posto di guida, il camion continuò a muoversi molto lentamente verso il centro della strada, mentre continuava a ricevere colpi su colpi sulla carrozzeria. I tiratori della Marina abbatterono anche gli altri due conducenti, i coscritti Ramón Cárdenas e Oscar Dresich, quasi nello stesso momento in cui il primo camion iniziò a prendere fuoco.

A bordo dei mezzi tutto era caos e confusione e, se non morirono altri soldati, fu grazie alla copertura ferrea fornita dai difensori del Palazzo del Governo. Il combattimento in quel momento divenne furioso, aumentando il numero dei feriti da entrambe le parti, soprattutto a bordo degli autobus e dei camion. I granatieri saltarono fuori dai trasporti e mentre alcuni cercavano riparo dietro i veicoli, gli altri corsero verso il palazzo del governo, con i proiettili che sibilavano intorno a loro.

Un ufficiale, Mario Davico si fermò accanto a una delle palme all'ingresso di Rivadavia, proprio accanto a una bomba inesplosa che pochi minuti prima l'Aviazione Navale aveva sganciato e lì rimase immobile. Dall'edificio i suoi compagni lo incitavano ad entrare perché, attirandosi il fuoco, era probabile che uno dei proiettili facesse esplodere l'ordigno.

Nel frattempo, il combattimento si era ulteriormente intensificato, con i Marines aggrappati alle loro posizioni, che sparavano con determinazione, pur sapendo che l'assalto alla sede del governo era ormai impossibile e che ogni contatto con il loro capo (il capitán Argerich) era stato interrotto.

I comandanti del Regimiento de Granaderos a Caballo (Reggimento Granatieri a cavallo), pensando che gli attacchi aerei non si sarebbero ripetuti, decisero di far scendere al piano terra una delle mitragliatrici pesanti per collocarla nel settore della spianata; mentre, dalla sua postazione, il teniente primero Carlos Mulhall ordinò un evacuazione dei soldati feriti.


Alcuni uomini del reggimento dei Granatieri a Cavallo che difesero
la sede del governo argentino.


Così stavano le cose quando, all'improvviso, due bimotori Beechcraft arrivarono da ovest, ​​volando bassi.

Vedendoli arrivare, le truppe lealiste di stanza sul tetto della Casa de Gobierno aprirono il fuoco, mentre all'interno dell'edificio gli occupanti si mettevano al riparo.

Spinelli fu sollevato nel vedere i bombardieri ma rimase sorpreso quando gli aerei sganciarono le bombe, perché gli sembrava che avrebbero colpito la sua posizione. Si coprì la testa, chiuse gli occhi e aspettò, ma i proiettili caddero sul palazzo del governo, provocando nuovi incendi e danni.

Fu in quel momento che l'ufficiale di Marina decise di ritirare la sua compagnia, che era stata duramente colpita dal fuoco nemico.

A quel punto, le squadre di civili ribelli guidati dal teniente de Navío (RE) Siro de Martini, avevano preso possesso delle installazioni di  Radio Mitre, sulla Arenales 1925; e, tenendo il personale sotto tiro, costrinsero l'annunciatore Alberto Palazón a leggere il proclama  rivoluzionario. Il testo era il seguente:

    
            “Argentini, argentini! Ascoltate questo annuncio dal Cielo, rivolto finalmente alla terra argentina: il tiranno è morto! La nostra Patria da oggi è libera: Dio sia lodato.

               “Le Forze Armate della Nazione con la solidarietà dei settori civili rappresentativi dell'orientamento democratico argentino, ispirati dagli ideali che hanno illuminato la nostra nazionalità sin da quel Maggio, si stanno ribellando in questo momento contro la tirannia, per ripristinare i valori della moralità pubblica, punire i responsabili, ripristinare la giustizia e restituire al popolo lo strumento essenziale delle sue libertà.

                “Affrontano questa decisione suprema dopo aver avuto prova che eravamo in procinto di distruggere spiritualmente il paese, a causa della corruzione dilagante; e sono decisi a farlo con urgenza,sfidando ogni pericolo, con la convinzione che il popolo abbia perso la possibilità legale di formare, esprimere e difendere spontaneamente la propria volontà!” (4)


Alberto Palazón


Ma Perón non era morto, tutt'altro. Al contrario, si trovava al 5° piano del Edificio Libertador, da dove seguiva con trepidante attesa lo sviluppo degli eventi.

Alla lettura del bando rivoluzionario rispose un proclama della CGT (Confederación General del Trabajo, il più grande sindacato dei lavoratori, alleato di Perón), diffuso dal suo segretario generale, Héctor Hugo Di Pietro su varie frequenze, che diceva:

“Compagni! Martedì la CGT vi diede una consegna: Allerta! 


È giunto il momento di eseguirla!


Tutti i lavoratori della Capitale Federale e della Grande Buenos Aires devono immediatamente concentrarsi nei dintorni della CGT, all’angolo di Independencia e Azopardo. Tutti i mezzi di trasporto devono essere espropriati, con le buone o con le cattive.


Compagni!: nel luogo di raccolta vi daranno istruzioni. 


La Confederazione Generale del Lavoro vi chiama a difendere il nostro leader! 


Radunatevi immediatamente senza violenze”. (5)

E la gente non si fece pregare. Le moltitudini di lavoratori, infiammate dai loro capi, salirono su vari mezzi e si recarono nei luoghi indicati, pronte a combattere. Lungo la strada, la folla assalì diverse armerie, tra cui la tradizionale Casa “Razetti”, impossessandosi di fucili, rivoltelle, pistole e coltelli, e dopo aver distrutto le palizzate in legno di vari edifici in costruzione, si procurarono mazze e oggetti di ferro.

La folla arrivò nella zona dei combattimenti da tutti gli angoli della capitale, dalle periferie e persino dalla città di La Plata. Lo fece a bordo di camion, autobus, automobili, treni e di tutti i mezzi di trasporto che potevano essere sequestrati. Molti veicoli furono messi a disposizione dalla Fondazione Eva Perón.

Vi furono scene davvero incredibili, con decine di operai e impiegati che attraversavano le strade nel bel mezzo della sparatoria infernale, cercavano riparo nei palazzi adiacenti e avanzavano in gruppi con il chiaro intento di occupare postazioni nei pressi della Casa de Gobierno. Nei momenti di maggior pericolo si videro anche più persone correre lungo il Paseo Colón e anche passanti terrorizzati che, intrappolati dagli spari, cercavano di proteggersi come meglio potevano.

L'appello della CGT e il suo forte incitamento della folla furono una delle cause di così tante vittime civili.


Daniel Cian 


Con il rumore degli spari come colonna sonora di sottofondo, gli operai acclamarono il presidente Perón mostrando un'irriducibile volontà di lottare fino alle ultime conseguenze.

Allo stesso tempo, l'Alianza Libertadora Nacionalista, la temibile forza d'attacco peronista guidata da Guillermo Patricio Kelly (1921-2005), esortava la popolazione dal suo quartier generale ad armarsi in difesa di Perón. I suoi militanti fornirono armi a numerosi civili, inviandoli immediatamente nella zona di combattimento con la chiara indicazione di morire in difesa del loro capo. Furono circa 200 o 300 militanti, molti dei quali ex- Ustascia, seguaci del temibile croato Ante Pavelic, identificati dal bracciale con l'aquila e l'acronimo del gruppo, a dare direttive ad alta voce, brandendo fucili, pistole e mitra.

Il gruppo mandò un camion fino alla porta della propria sede e dopo averlo riempito di militanti (quasi tutti lavoratori armati), lo guidò verso le prime linee della lotta, scortato da diversi veicoli e seguito da gruppi a piedi che correvano dietro, urlando slogan inneggianti a Peron.

Giunti al Paseo Colón, gli “Alianza” ordinarono agli occupanti del camion di saltare a terra e incoraggiandoli con grida di guerra e di morte, li esortarono a mettersi in marcia, cosa che loro fecero con grande determinazione.

“Compagni dell'Alleanza, attacchiamo il Ministero!”

Mentre i militanti e gli operai si dirigevano verso il quartier generale dei ribelli, sotto i portici del Cabildo un secondo gruppo “Aliancista” sollecitava un altro numero significativo di operai a recarsi alla CGT per procurarsi le armi. L’improvvisata truppa salì su due camion e, gridando: “Perón o morte! La vida por Perón!”, partì a tutta velocità, seguito da altri a piedi.

In quel momento, il quartier generale della Marina stava iniziando i preparativi per la sua difesa, poiché era imminente un assalto alla sua posizione. Si sapeva che reparti dell'Esercito, soprattutto le truppe del 3° Reggimento di Fanteria, stavano convergendo verso il centro della capitale ed era necessario unirsi al loro appoggio.

Il reggimento, una potente unità da combattimento con sede a La Tablada, era stato messo in allerta la notte prima e, alle 12:30 del 16 giugno, ricevette l'ordine di tenersi pronto. Poco dopo il bombardamento, i soldati iniziarono la marcia verso l'epicentro della città, dividendosi in due colonne munite di cannoni Oerlikon. Il primo, al comando del maggiore Juan Carlos Vita, imboccò la Av. Crovara in direzione di Plaza de Mayo, pronto a unirsi alla difesa del Palazzo del Governo, e il secondo fece lo stesso verso l'aeroporto internazionale di Ezeiza con la missione di impadronirsi di quello che, fino a quel momento, era stato uno dei centri più importanti della ribellione.

La sezione del maggiore Vita attraversava Av. San Martín, a pochi isolati da Av. General Paz, quando tre aerei della marina si avventarono su di essa, mitragliandola e bombardandola. Il raid causò la morte di tre coscritti, e il ferimento di diversi loro compagni. Le schegge uccisero anche un vecchio che fu lasciato giacente sull'asfalto, all'angolo tra Crovara e San Martín: una delle tante vittime che, quel giorno, non furono neanche contabilizzate.

Il reggimento interruppe la marcia e puntando i suoi cannoni antiaerei respinse l'attacco, colpendo uno degli aerei e costringendo gli altri due a ritirarsi, mentre i passanti fuggivano terrorizzati dal settore.

Alle 14:00 la sezione arrivò alla Plaza de Mayo divisa in due colonne. La prima, guidata dal mayor Vita, si mosse in ricognizione della zona proprio mentre la sede del governo veniva attaccata dal plotone del teniente Spinelli, la seconda si fermò in attesa di istruzioni.

In quel momento, il teniente primero Mulhall era a capo di due delle tre mitragliatrici pesanti che erano state montate sui tetti del palazzo del governo; la terza si era inceppata ed era fuori servizio. A corto di munizioni, ordinò a uno dei soldati accanto a lui di andare alla ricerca di un nuovo rifornimento mentre continuava a battere il nemico.

Il granatiere e un suo commilitone partirono di fretta, e tornarono subito con diverse casse e nastri di proiettili. Mulhall disse loro di riporre le munizioni e poi di ritirarsi; ed era quello che stavano facendo i due coscritti quando, improvvisamente, il soldato di leva Víctor Enrique Navarro cadde a faccia in giù, vittima di un colpo alla testa. Cecchini civili situati sul tetto del Banco Nación e alle finestre del Ministerio de Asuntos Técnicos, (Leandro N. Alem e 25 de Mayo), lo avevano abbattuto.

Indignato, Mulhall indicò il tetto della banca e sparò diverse raffiche, spazzando la posizione mentre pezzi da mm 20 e mm 40 del 3 ° reggimento di fanteria, appena giunto sul posto, fecero lo stesso sul suddetto ministero.

Quella di Navarro fu una delle tante morti inutili avvenute quel giorno. Colpito dal dolore, Mulhall lo coprì con un mantello e rimase lì, aspettando accanto al cadavere ulteriori sviluppi.

Tale era la potenza di fuoco e la combattività dei fanti di Marina di Spinelli che i comandanti che difendevano il Palazzo del Governo, Guillermo Gutiérrez ed Ernesto D'Onofrio, chiesero rinforzi al loro reggimento.

Ricevuta la richiesta, i granatieri approntarono le truppe e verso le 14 lasciarono Palermo, al comando del sottotenente Roberto D'Amico. Avevano con sé tre carri armati Sherman, due semicingolati "Carrier" muniti di mitragliatrici pesanti, e diversi camion e autobus carichi di coscritti che, presi dall'entusiasmo e da molta incoscienza, desideravano ardentemente entrare in azione.


Granaderos a cavallo del loro Sherman 



Mentre questi attraversavano i cancelli della caserma, le truppe che dovevano rimanere sul posto a guardia delle strutture, insieme a un gruppo di civili venuti in cerca di informazioni, salutarono la loro partenza applaudendo e lanciando grida di Viva Perón!

La colonna imboccò il viale Cabildo, all'altezza del Puente Pacífico, prese la Avenida Santa Fe (continuazione del precedente) per attraversare Plaza Italia, lo Zoo e il Giardino Botanico. Giunto a Callao, svoltò a destra e prendendo Corrientes raggiunse la Avenida Diagonal Norte, passando accanto all'obelisco. Proseguendo lungo la Avenida Diagonal Norte, lasciò alla sua destra lo storico Cabildo e quindi sbocco sulla Plaza de Mayo per proseguire lungo Rivadavia in mezzo a un intenso fuoco di mitraglia.

L'unità motorizzata si fermò accanto al portone principale del palazzo governativo, permettendo ai fucilieri del 2° Escuadrón di entrare e prendere posizione. Subito dopo D'Amico impartì una serie di istruzioni e iniziò l'avanzata sulle posizioni del tenente Spinelli.

I Marines combattevano con coraggio inusitato, colpendo con le loro raffiche le strutture metalliche dei mezzi corazzati. I loro proiettili rimbalzavano pericolosamente sulle macchine e venivano lanciati in ogni direzione, mettendo in pericolo i militari e i miliziani peronisti che si trovavano nelle vicinanze.

Con D'Amico che stava con metà del suo corpo fuori dalla torretta del suo carro armato e sparava con la mitragliatrice, la colonna iniziò a muoversi mentre il Reggimento Motorizzato "Buenos Aires" faceva altrettanto, partendo dal palazzo del  Ministerio de Ejército, al comando del teniente coronel Marcos Ignacio Calmón.

Calmón aveva diviso la sua forza in tre sezioni, prendendo posizione al centro. L'idea era di inviluppare il nemico con un movimento a tenaglia e penetrare nel mezzo come un ariete. La colonna n. 1 avrebbe dovuto affrontare i Marines, la seconda sarebbe avanzata attraverso il settore  adiacente al porto e la terza avrebbe fatto lo stesso seguendo la ferrovia che collegava i moli del porto con la stazione del Retiro.

Quando i carri armati iniziarono a muoversi, molti civili si unirono a loro per seguirli; alcuni pronti a combattere e altri determinati ad aiutare i soldati, sia consegnando loro munizioni, acqua per le mitragliatrici e anche fungendo da collegamento.

La situazione con i civili cominciò a sfuggire al controllo poiché, nella loro impazienza di prendere parte alla lotta, essi cominciarono a ostacolare i movimenti delle forze armate. Molti di loro caddero crivellati di proiettili dai fanti e altri rimasero feriti, richiedendo la loro evacuazione.

Attorno alla sede della  CGT, e ad altri punti vicini Palacio del Gobierno, si erano radunati più di 50.000 lavoratori desiderosi di intervenire nella lotta: una cifra davvero preoccupante se si tiene conto dell'entità dei combattimenti che si stavano svolgendo. Quando il presidente Perón, dal Ministerio de Ejército, venne a sapere cosa stava succedendo, inviò suo nipote, il mayor Ignacio Cialcetta, con l'ordine di emanare la direttiva che la situazione fosse riportata sotto controllo e il settore fosse immediatamente sgomberato.

Cialcetta guadagnò l'esterno, dove migliaia di operai attendevano notizie.

“Tutti quelli presso la CGT", gridò ad alta voce, "sgombrare l'area!”

In quel momento, un camion delle Poste e una jeep dell'Alianza Libertadora Nacionalista stavano distribuendo armi tra i civili, rendendo la situazione insostenibile. Quando Cialcetta arrivò alla centrale operaia e riferì che l'Esercito stava mantenendo il controllo, la massa degli operai, fervente, si precipitò nelle strade per unirsi alla colonna di carri armati che in quel momento avanzava sui marinai ribelli.

L'azione del nipote di Perón finì per sortire l'effetto opposto a quello atteso.

La situazione accrebbe la preoccupazione dei capi ribelli che, dal Ministerio de Marina, seguivano da vicino lo sviluppo degli eventi. Per questo motivo l'ordine del loro comandante, l'ammiraglio Aníbal Olivieri, fu definitivo. Gli aerei navali dovevano continuare gli attacchi, aggiungendo due nuovi obiettivi: la sede della CGT e la Radio del Estado.

Toranzo Calderón, Gargiulo e gli alti funzionari appoggiarono la decisione; ma l'ordine non fu mai ricevuto.

Mentre le forze lealiste avanzavano, il Ministerio de Marina organizzava la propria difesa, stazionando trenta tiratori ai piani inferiori assistiti da un numero doppio di coscritti.

In quel momento le truppe peroniste premevano fortemente sulle posizioni  del teniente Spinelli, sia da la Casa de Gobierno che dal Ministerio de Ejército. Pertanto, dopo una rapida analisi della situazione, visto che i suoi uomini erano dispersi e diversi gravemente feriti, il coraggioso ufficiale dispose la ritirata, ordinando un fuoco intenso per costringere il nemico a mantenere le sue posizioni.

Lo stesso Spinelli diede l'esempio alzandosi e lanciando una granata verso il Palazzo del Governo che, quando esplose, ferì gravemente il capitán Marcelo Amavet e il subteniente Camilo Gay.

I “marò” argentini si alzarono e quelli intorno a Spinelli procedettero a trascinare il guardiamarina Pozzi verso il distributore dello Automóvil Club. In quel momento, una turba di civili, che sventolavano una bandiera e inneggiavano a Perón, iniziò ad avvicinarsi minacciosamente, brandendo ogni tipo di arma. Spinelli e i suoi uomini aprirono il fuoco contro di loro. Quelli che non furono colpiti si dispersero frettolosamente, cercando disperatamente riparo.

Fatta segno al fuoco proveniente da vari settori, la 2ª Sección del teniente Spinelli arrivò alla stazione di servizio, rendendosi conto che, dalla zona delle dighe del porto, stava sparando anche contro di loro la Prefectura Naval.

Agitando il braccio destro, Spinelli urlò ai suoi uomini di sbrigarsi, cercando di coprirli con la sua arma automatica. Le finestre e le lanterne della stazione di servizio andavano in frantumi, mentre il cicalino di un filobus abbandonato a pochi metri di distanza rendeva la scena ancora più irreale.

Durante la ritirata, diversi fanti di fanti si staccarono dal gruppo principale e, essendo isolati, caddero prigionieri, ricevendo in alcune occasioni terribili percosse dai civili inferociti.

Un coscritto di nome Jovanovich, trovandosi smarrito, finse di essere gravemente ferito e si gettò a terra. Una volta nell'ambulanza in cui veniva evacuato, si alzò e, puntata la pistola alla testa dell'autista, lo costrinse a portarlo allo Arsenal Naval.

Nella loro ritirata, i marines soffrirono numerose perdite, tra le quali il mayor Galileo Battilana, i marines Carlos Fernández, Antonio Massafra, Norberto Di Tomaso e Carlos Garofalo e il coscritto Abel Lerner.

Massafra, gravemente ferito alle gambe, raggiunse con i propri mezzi il Ministerio de Marina e Garofalo, colpito mentre sparava prono da un'aiuola, fu prelevato da un infermiere che lo portò in auto nel stesso luogo.

Nella stazione di servizio dello Automóvil Club, i civili non combattenti si tenevano al riparo, mentre i marò continuavano a sparare con determinazione ei loro feriti venivano assistiti dagli impiegati locali.

Le forze lealiste tentavano di liberare la stazione di servizio, difesa dal plotone del cabo segundo Roberto Vivas; e i civili continuavano ad avanzare numerosi, frammisti alle truppe lealiste o in gruppi sparsi. Molti di loro furono abbattuti, mentre attraversavano la linea difesa fuoco o mentre correvano verso il nemico.

La cosa peggiore, secondo Ruiz Moreno, era che continuavano ad arrivare operai armati dalle zone della Grande Buenos Aires [il gruppo più importante era quello delle Cervecerías (Birrerie) Quilmes]; e che lungo l'Avenida de Mayo avanzavano diversi camion con la gente ammassata nei cassoni, gridando slogan. Essi conversero presso il Ministerio de Ejército e la CGT, chiedendo armi e quando non le ottennero, si procurarono quanto poterono, cioè bastoni, ferri e catene, lanciandosi coraggiosamente e temerariamente al combattimento.

La fanteria dei marines continuava la sua ritirata, nel mezzo del feroce scontro a fuoco, riparandosi dietro le auto e ogni barriera che servisse loro per contenere la grandine di proiettili. Spinelli era nel gruppo, correndo al fianco del cabo Silvero e del soldato di leva Cofman, quando notò tre operai armati che li inseguivano. Stava per sparare contro di loro quando diverse raffiche, provenienti dal Ministerio de Marina abbatterono i loro inseguitori. In un altro settore, altri due civili armati di pistole calibro .45 (forse membri della Alianza Libertadora Nacionalista), seguivano le tracce di un dragoneante al quale stavano per sparare, quando il soldato Marcos Robledo ne abbatté uno e costrinse l'altro a fuggire velocemente.

Un altro manipolo che si stava ritirando, inseguito da vicino dalla folla, si voltò improvvisamente e, affrontandola, scaricò diverse raffiche, uccidendo un buon numero di operai mentre il grosso si dava alla fuga.

A diventare disperata era la situazione del coraggioso sottufficiale dei fanti di marina Vivas che, dalla stazione di servizio dello Automóvil Club, continuava a coprire il ritiro dei suoi compagni. Era fiancheggiato da tre dei suoi uomini che sparavano incessantemente, mentre il guardiamarina Pozzi, gravemente ferito, giaceva al riparo a terra.

I cinque militari ribelli si consideravano già perduti, quando, inaspettatamente, un'auto nera che andava a zig-zag, guidata dal coscritto Pedro Lodeiro, arrivò ad alta velocità.

Il veicolo si fermò vicino alla stazione di servizio, e dall'interno dell’auto il conducente gridò loro di salire. I combattenti corsero alla disperata e, una volta dentro l’auto, questa decollò a gran velocità facendo stridere le gomme sul selciato.

Lodeiro lasciò i suoi "passeggeri" al Ministerio de Marina e tornò indietro per via Pozzi, accompagnato dal guardiamarina Juan A. Dover, della 1a Compagnia del Battaglione 4.

L'auto sfrecciò lungo Sarmiento mentre i colpi le risuonavano intorno. L'autista stava cercando di invertire il veicolo, puntando verso la base ribelle, quando due proiettili perforarono il parabrezza, senza però che nessuno degli occupanti se ne accorgesse.

Il guardiamarina Dover scese precipitosamente dall’auto, e corse verso l'edificio; e si accorse con suo stupore che Pozzi non era con lui. Nessuno dei civili che si mantenevano al riparo nell’edificio seppe poi raccontargli cosa gli fosse successo; nemmeno gli unici due soldati rimasti sul posto, un soldato dell'Esercito e un marine sbandato - il coscritto Luis Croce - che credeva di aver visto quando stavano evacuando Pozzi in macchina al Ministero e nient'altro.

A quel punto la situazione dei ribelli era critica. I carri armati dell'esercito avanzavano seguiti da truppe e militanti peronisti; i Marines stavano cedendo terreno e il loro quartier generale minacciava di essere assediato.


Lavoratori Peronisti avanzano, protetti da un carro armato, verso il palazzo del Ministerio de Marina. 



Fine della seconda parte.

(Continua).

 

Note:

4: Isidoro Ruiz Moreno, La Revolución del 1955, Enecé, Buenos Aires, 1994. Tomo I, Parte Terza, Cap. X "La batalla del 16 de junio".

5: idem  


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